sicuramente si tratta di un onfalos affusolato, di color nero e privo di decorazioni, Sono le veneri sarde del peroiodo del bronzo ricavate su di onfalos con queste specifiche forme che ne hanno permesso il riconoscimento con sicurezza , oltre naturalmente al colore e al tipo di caratteristiche fenomenologgiche.
L’introduzione del culto della dea Cibele a Roma, il 4 aprile del 204 a.c., ci è narrata dallo storico Tito Livio che così si esprime: In quel periodo all’improvviso una forma di panico superstizioso aveva invaso Roma: quell’anno con eccessiva frequenza piovvero pietre dal cielo e in seguito all’esame di libri Sibbillini si trovò un vaticinio secondo il quale, quando un nemico esterno avesse portato guerra in Italia, sarebbe, stato possibile cacciarlo e vincerlo se si fosse fatta giungere a Roma da Pessinunte la madre dea…..Quindi, per poter fruire quanto prima di quella vittoria che pronosticavano fati, presagi e oracoli, si cominciò a riflettere sul modo di trasferire a Roma la Dea…..La nave raggiunse le foci del fiume Tevere; (Scipone) secondo l’ordine ricevuto, spintosi in mare su una imbarcazione, ricevette dai sacerdoti la dea e la trasportò a terra. Le più insigni matrone della città….la accolsero….Esse si passarono la dea di mano in mano una dopo l’altra; intanto l’intera città si era slanciata loro incontro davanti alle porte delle case dove la Dea veniva fatta passare furono collocati dei turiboli dove fu fatto bruciare l’incenso, mentre si pregava la Dea di entrare nella città di Roma di sua volontà e propizia. Il 12 Aprile la Dea fu portata nel Tempio della Vittoria che si trova sul Palatino. La giornata fu proclamata festiva. Il popolo in massa recò doni alla Dea sul Palatino ed ebbero luogo un lettisternio e dei luti, detti megalesia. (Liv. XXIX 10, 4. 5.8;14, 11-14).Si noti che nel racconto liviano la dea fa tutt’uno con la sua statua ; accogliere la statua è accogliere la dea, poiche si credeva che la statua fosse impregnata della presenza di quella divinità.Il calendario romano colloca nel mese di marzo le celebrazioni di Cibele, fra le Idi di, l’Equinozio di primavera ed i giorni immediatamente successivi. Ciò ha indotto gli studiosi di una certa epoca, nella prima meta del novecento a leggere il culto nei termini di un culto agrario, di una allusione simbolica alla vicenda delle stagioni, al fiorire della primavera, alla fecondità della terra.Tutto ciò alla luce delle nuove scoperte non è del tutto sbagliato ma presenta alcune inesatezze dovute alle visioni sovrapposte derivate appunto dalle similitiudini o dalle associazioni di onfalo diversi, i quali a più riprese furono sempre presenti e ricordati anche nel Lazio. Proprio il far luce su queste associazioni ci permette di riscoprire i ruoli di ogni singolo onfalos. Inoltre nelle vicessitudini dell’inserimento di questo culto a Roma traspaiono non a caso gli effetti dell’abolizione degli arcaici culti propiziatori per l’approvigionamento dei ferri meteoritici.Si tramanda che a quel tempo il senato, reputando che l’esuberanza rituale di questo culto fosse tropo lontana dal severo ed austero costume religioso romano –ricordiamo che siamo in periodo republicano, nel pieno della guerra annibalica – proibì ai cittadini romani di partecipare ai rituali del culto e, ancor di più, di diventarne sacerdoti. Col tempo il culto si andò amalgamando col diverso clima culturale romano e l’imperatore Claudio, nel I secolo d.C. conferi alla Magna Mater una posizione di privilegio , per cui a quel punto, le interdizioni disposte secoli indiero non ebbero più senso, tanto più che le confraternite di cultores della Magna Mater accettarono volentieri le norme di disciplina religiosa stabilite dallo Stato per rendere il culto più adatto alla sensibilità religiosa romana che, nel frattempo era stata ampliamente impregnata di apporti religiosi stranieri, greci, egizi, persiani o comunque ellenistici.
La grande Dea anatolica ;Dea creatrice che ha dato origine all’intero universo senza bisogno di intervento maschile, vergine inviolata e tuttavia madre degli dei. La grande dea anatolica si manifestava nella dura sostanza della roccia e si riteneva fosse caduta dal cielo sotto forma di una Pietra nera. Sul confine occidentale della Paflagonia c’era una scogliera deserta che si chiamava Agdo e Cibele vi veniva adorata sotto forma di una pietra nera. La leggenda narra che Zeus era innamorato di Cibele ma invano cercava di unirsi alla dea e nell'angoscia di una notte d'incubo, mentre la sognava ardentemente, il suo seme schizzò sulla pietra generando l'ermafrodito Agdistis. Questi era malvagio e violento, con le sue continue prepotenze aveva già maltrattato tutti gli dei. Sicché Dioniso, giunto all’esasperazione, volle vendicarsi e architettò ai suoi danni uno scherzo atroce. Gli portò in dono dell'ottimo vino e lo accompagnò a bere in cima a un grande albero di melograno, finché Agdistis si addormentò ubriaco fradicio in bilico su un ramo. Pian piano con una cordicella Dioniso gli legò i genitali al ramo e, sceso in terra, scosse l'albero con tutta la sua forza. Nel brusco risveglio il malcapitato precipitò strappandosi di netto il prezioso organo: così Agdistis morì dissanguato mentre il suo sangue lavava il melograno e lo faceva rifiorire rigoglioso e stupendo e carico di succosi magici frutti. La ninfa del Sangario, il fiume che scorreva nelle vicinanze, sfiorò con la sua pelle vellutata uno di quei frutti e rimase incinta di un dio. Fu così generato Attis il bello, il grande amore di Cibele. La Signora delle fiere suonava la lira in suo onore e lo teneva perennemente occupato in voluttuosi amplessi. Ma, ingrato e irriconoscente, Attis volle abbandonare quelle gioie celesti e se ne fuggì via per vagare sulla terra alla ricerca di un'altra donna. Cibele sapeva bene che nessuna infedeltà avrebbe potuto sfuggire alla sua vista onnipotente e, trainata dai leoni, lo sorvegliava dall'alto del suo carro. Colse così Attis mentre giaceva spensieratamente con una donna terrena, convinto che le fronde di un alto pino fossero sufficienti a nascondere il suo tradimento. Vistosi scoperto, Attis fu assalito da un rimorso tormentoso e implacabile, finché all'ombra del pino si evirò. La castrazione divina .
L’immagine dell’ape regina, che durante l’atto nuziale effettua la castrazione del fuco, incarna l’essenza del mito classico su Cibele. Presso gli Ittiti, Kumarbi stacca con un morso i genitali del dio del cielo Anu, ne inghiotte una parte dello sperma e sputa il resto contro la roccia, ove si genera una bellissima dea. Benché argomento apparentemente peregrino, la castrazione è un tema mitico universalmente diffuso e si collega al nucleo della trasmissione del potere regale cui si è alimentata tanto la tradizione egiziana (Osiride) che quella Greca (con Urano). Il mito pelasgico della creazioneIn principio la grande Dea emerse nuda dal Chaos. Non trovando nulla ove posare i piedi, divise il mare dal cielo e intrecciò sola una danza sulle onde. Danzando si diresse verso sud e il vento che turbinava alle sue spalle le parve qualcosa di nuovo e di distinto, pensò allora di cominciare l’opera della creazione: si voltò all’improvviso, afferrò il vento del nord e lo sfregò tra le sue mani finché apparve un enorme serpente.La Dea danzava accaldata, danzava con ritmo sempre più selvaggio e il serpente, acceso dal desiderio, l’avvinghiò nelle sue spire e si unì a lei. Volando a pelo dell’acqua la Dea assunse forma di colomba e poi, a tempo debito, depose l’uovo cosmico. Ordinò allora al serpente di avvolgere l’uovo per sette volte: il guscio si dischiuse e ne uscirono tutte le cose esistenti. Ma ben presto il serpente si vantò d’essere egli stesso il creatore e irritò così la grande Madre che lo relegò nelle buie caverne.E’ questo il mito Pelasgico, che alcuni Autori ascrivono ad un’origine anatolica. Si tratta di una versione in accordo con la tradizione indoeuropea degli antichi Veda (i testi sacri degli invasori giunti in India da nord e attraverso le steppe caucasiche). V’è un parallelo con Vinata, dea primordiale che guarda verso dove il limite dell’oceano si unisce con il cielo: dall’uovo cosmico che ella depone nasce un figlio alato il cui primo compito sarà di riscattare la madre dal potere dei serpenti.
Il culto, Cibele era la grande madre di tutti i viventi , protettrice della fecondità, signora degli animali selvatici e della natura selvaggia, attraversava le foreste montane su un cocchio tirato da leoni, accompagnata dal corteo orgiastico dei coribanti. Era anche una divinità poliade, fondatrice di città e patrona del suo popolo in pace e in guerra, aveva anche caratteri oracolari. Il suo culto,che aveva il centro principale in Pessinunte, in Asia minore, era in origine di carattere nettamente orgiastico, con danze sfrenate al suono di flauti, timpani e cembali ed estasi deliranti, durante le quali i galli, suoi sacerdoti servitori, si flagellavano e arrivavano a autoevirarsi. In seguito il suo culto passo in Grecia e specialmente a Creta, sotto il nome di Rea. Sotto l'influenza greca, questo culto perse molte delle sue caratteristiche barbariche, che riaffiorarono in epoca ellenistica. A Roma ella fu venerata a partire dal 205 a. c. come simbolo di fecondita’. I suoi scerdoti si chiamavano Galli nella Galizia, Coribanti nella Frigia, Dattili Idei nella Troade e Cureti a Creta. In suo onore furono incisi svariati fregi e solchi su marmo quale atto per ridestare l’insita sua presenza. Santuari imponenti le venivano dedicati in posti inaccessibili, ricavandoli nelle pareti a picco mille metri sul mare. Il suo misterioso culto ctonio era praticato nelle fenditure della montagna, entro nicchie e gallerie. Talora l’apertura era un lontano punto visibile su un dirupo, tal altra corrispondeva al punto più alto di un’acropoli: era l’ingresso a tunnels scavati interamente nella roccia con gradinate discendenti nelle viscere della montagna, ad andamento elicoidale e senza sbocco. Ieratica in trono, Cibele riceve gli omaggi delle processioni che avanzano al ritmo frenetico di timpani, cembali, flauti e tamburi. Porta sul capo un ornamento cilindrico, di solito a forma turrita; è coperta da un velo o da un mantello, regge uno specchio nella mano e, sette volte su dieci, possiede una melagrana. Come Demetra, impugna le spighe d’orzo la cui Claviceps purpurea forniva la bevanda allucinogena. Il leone è il veicolo di Cibele ed immancabilmente lo troviamo ai suoi piedi. Anche nei bassorilievi della corrispondente dea ittita (Kubaba) compare un leone ai piedi del trono. Non solo in Anatolia: nel 1200 a.C. l’iconografia di una donna nuda in equilibrio sulla schiena del leone era presente in una vasta area del bacino mediterraneo orientale che interessava Assiri (Ishtar), Fenici (Astarte) ed Egiziani (Quadesh). La criniera del leone e le sue fauci spalancate sono l’emblema del pube femminile. Solo più tardi, quando le società patriarcali hanno sviluppato concezioni misogine, nel pelo leonino è stata proiettata l’immagine raggiata della corona solare. Non deve stupirci la banalità dell’attribuzione sessuale, l’idea dell’antro genitale femminile è insita nel nome stesso di Cibele, che significa grotta. Bisogna considerare che in Cibele c’è la continuità con le semplici concezioni religiose dell’uomo del neolitico e che in Anatolia, già nel 6.000 a. C., la grande dea veniva rappresentata seduta in trono fra due leonesse.
Onfalos decorati
L’onfalos del sole era lo Yuppiter Lapis
Già conosciuto come l'antico Saturno. Ha la forma tipica affusolata, ma presenta le quattro superfici più piane e quindi una forma piramidale più marcata. Su questa pietra per lo più di color smeraldo, tra le altre venature colorate che la caratterizzano, si distingue la divinità con le due folgori reggere anche uno scudo sul quale ci sono una serie di punti disposti come le Pleiadi. Questa costellazione col suo sorgere all’orizzonte, dopo un periodo di 40 giorni, indicava il periodo della maturazione delle messi. Per questo motivo Saturno veniva rappresentato con un falcetto in mano. Questa è anche la litolatria più importante, l’originale dalla quale derivano tutte le decorazioni principali di tutte le altre litolatrie o onfalos, anche meglio definiti codici geodetici, in seguito spiegherò come infatti nelle rappresentazioni romane Saturno era anche rappresentato con un piccolo martello da cesellatore.
L’onfalos della luna è meglio identificabile nella litolatria di Giano, le sue figure in bianco e nero evidenziano un grosso pofilo sullo spicchio lunare, non a caso il suo codice geodetico è 155, corrispondente alle settimane di un anno.Agli inizi del III millennio a.C. in Mesopotamia sembra sia stato coniato l’etimo Set, per indicare i sette giorni delle quattro fasi della luna, inoltre da questa litolatria deriva la figura di Set, la divinità egizia delle tempeste come vedremo nel volume dedicato a questa civiltà.L’etimo anu,indicava invece l’anno o meglio l’Anello , il giro apparente che compie la luna in un anno. L’etimo mes indicava invece il mese, ma senza risalire troppo indietro nel tempo, fermandoci alla Grecia classica e affidandoci a etimologie fors epiù attendibili, vediamo come i termini che indicano la misura del tempo, (ciò che anima l’idea del calendario ) possiedono ancora quasi tutti il prefisso Me, derivante dal termine Mènè, con cui i Greci designavano la Luna, corpo celeste le cui trasformazioni caratterizzavano un periodo di tempo che aveva lasciato una traccia indelebile nella vita e nell’immagginario die progenitori fin dall’alba dell’Umanità…..nacque dunque Men, il Mensis latino, il nostro mese, il termine Mensura (proprio l’idea di misurare il tempo, il Mensis!); nacquero termini Moon month (Luna e mese in ingelese), der Mond e der Monat (la luna e mese in tedesco), Mami e Mas (luna in Sanscrito), manu (in latino), ecc. Tutti termini che possiedono la stessa radice e che evidenziano la stretrtissima correlazione tra l’idea di misura“ costituiva la base: la Luna.
Lanalisi ed il confronto degli antichi caratteri della scrittura italica, poi ereditata dagli etruschi evidenziano che la lettera “ M “ indica volto quella“ E “profilo, non è un caso che le sovrapposizioni capovolte delle figure sul profilo lunare di Giano siano un grosso volto per metà biAnco e per metà scuro, da questultima parte derivano i miti di Minerva o meglio Diana, il tutto accostato alla testa di un leone e alla divinità di Marte. Attraverso il fegato di Piacenza è stato possibile ridare il volto originale a tutte le divinità su di esso rappresentate, derivanti da questa litolatria ,il bronzo le suddivide su di una superfice piana e le classifica tutte in piccoli gruppi di tre associate per similitudini. Ma soprattutto utilizza gli "antichi caratteri“ dai quali deriveranno poi, i loro nomi greci, per indicarne e distinguerne la posizione, il nome che ne derivava era quindi una sigla, più è lungo è il nome, maggiori erano i riferimenti per distinguere ed estrapolare la figura con precisione fra le altre sovrapposte. Dato che il risultato coincide con i nomi greci questi non possono che essere successivi a questo ordine geometrico di scomposizione. Molte delle associazioni e dei doppi sensi che emergono da questa “inquadratura-traduzione“ sono ancora riscontrabili nei pluri-significati delle parole latine, è quindi possibile che; sia letrusco che il latino più antico, in origine venissero interpretati come acronomi (sigle) e che quindi molti dei testi che conosciamo abbiano contenuti molto più ampi.